Antonio De Bonis
MEMORANDUM OF UNDERSTANDING SULLE NUOVE VIE DELLA SETA TRA ITALIA E CINA.
Di Venusia Salzillo
Dopo l’ambigua esitazione del novembre scorso che ha rimandato la questione degli accordi tra Italia e Cina sulla Belt and Road Initiative (BRI), il 23 marzo, durante la visita in Italia del Presidente cinese Xi Jinping, è arrivata la firma del Memorandum of Understanding (MoU): un documento che incornicia 29 accordi dal valore complessivo di due miliardi e mezzo nei settori di energia, industria, infrastrutture e finanza.
Il valore puramente simbolico del documento si comprende già dall’analisi della forma: il Memorandum d’Intesa tra Roma e Pechino non è un accordo che impone vincoli legali internazionali; traccia, per ora, una linea comune di intendimenti.
Ma può essere il preludio ad una collaborazione politico-economica più stringente. Rischio largamente paventato dall’Unione Europea che mal ha digerito l’iniziativa unilaterale italiana di aprire un varco, in Europa, all’ascesa della potenza cinese. La politica espansionistica del “rivale sistemico”, spauracchio di Bruxelles, sta minando le relazioni sino-europee che hanno registrato un brusco cambio di rotta, dopo più di un decennio improntato alla collaborazione strategica.
L’Ue, da sempre criticata per il suo ruolo poco incisivo e politicamente debole, ha adottato, in quest’occasione, un approccio quanto mai energico. In un discutibile e alquanto anacronistico richiamo all’unità, Bruxelles ha ribadito agli Stati membri di essere coerenti con le leggi e le politiche dell’Ue e di rispettarne l’unità nell’adempimento delle stesse. Tra le righe, arginare la strategia “divide et impera” cinese per inserirla in un quadro di negoziazione maggiormente regolamentato.
Il timore, malcelato, che il Dragone si insinui prepotentemente sui mercati europei increspa gli umori anche degli Stati Uniti che strigliano pesantemente l’Italia: stringere accordi con la Cina rappresenta, agli occhi americani, un chiaro segno di insubordinazione, che potrebbe avere pericolose ripercussioni sull’alleanza tra i due Paesi. Le stime negative per il 2019 dell’agenzia statunitense Standard and Poor’s verso il nostro Paese, potrebbero esserne già un segno. Le preoccupazioni americane puntano anche verso la questione delle telecomunicazioni: favorire l’intromissione delle aziende cinesi, Huawei e Zte, in settori strategici quali quelli del controllo dei dati e delle informazioni, rappresenta una chiara minaccia alla sicurezza nazionale che irrita non poco gli Usa, impegnati da alcuni anni in una strategia di containment, rivolta verso il nemico cinese.
L’aspetto geopolitico più significativo dell’iniziativa italiana sta nell’aver intaccato gli equilibri di potere a livello internazionale: primo Paese del G7 a firmare l’intesa con la Cina sulla BRI, testa di ponte degli scambi sul Mediterraneo provenienti dall’Oriente, l’Italia rappresenta un altro tassello della strategia di riposizionamento cinese: nella nuova riorganizzazione spaziale che la politica del leader cinese sta portando avanti, la Cina sceglie l’anello debole dell’Ue per creare, nel suo disegno, un legame tra economia e politica che, nel tempo, diventa inevitabile.
Far finta di ignorare il suo impatto geopolitico e sottolineare la valenza puramente commerciale dell’iniziativa, portando, a sostegno della propria tesi, l’interscambio già operante di altri paesi come Germania, Regno Unito e Francia con la Cina, fa leva sulla mancata consapevolezza che il nostro sistema politico ed economico è francamente debole. La capacità produttiva del Belpaese, per aspirare ad avere un impatto significativo sui flussi commerciali globali, deve necessariamente inquadrarsi in un sistema negoziale più articolato e geopoliticamente strategico all’interno del quale progettare nuove opportunità infrastrutturali.
L’individuazione di Trieste, nel disegno della Bri, rappresenta il punto di approdo delle vie marittime della seta e lo snodo principale per i commerci che transitano verso il nord Europa, ideando un sistema di interconnessioni che potrebbe favorire un aumento delle esportazioni nei settori enogastronomico e manifatturiero italiani. Ma lo status di Trieste e la sua particolare condizione di extraterritorialità impongono una riflessione accurata. Secondo alcuni, con le risoluzioni del Trattato di Parigi del 1947, alla fine della seconda guerra mondiale, l’Italia ha concesso a Gran Bretagna e Stati Uniti la tutela dell’autonomia del porto. Pertanto, in caso di ritardi o malfunzionamenti di vario tipo, la Cina, bypassando il governo italiano, potrebbe esercitare i suoi diritti sugli Usa che si troverebbero a scontrarsi, a pieno titolo, con il rivale cinese.
Il caso di Trieste rappresenta solo un esempio delle tutele da attivare nella partecipazione al progetto: le politiche di gestione delle attività finanziarie a cui la Cina è avvezza, e le dinamiche, spesso predatorie, di concessione di prestiti per finanziare le infrastrutture del suo progetto, che in alcuni casi hanno “espropriato” i Paesi insolventi, spingono a guardare con attenzione gli step successivi al Memorandum.
Volendo stringere ulteriormente i legami economici con la Cina l’Italia può aver fatto, più o meno consapevolmente, una scelta di campo la cui valenza strategica apre interessanti spunti di riflessione: siamo di fronte ad una nuova postura geopolitica italiana nello scenario globale? O ha, più semplicemente, sottovalutato che il legame tra economia e politica tesse la trama del potere mondiale?