Antonio De Bonis
La Cina alla conquista del pianeta

Venusia Salzillo
Le nuove Vie della Seta: potenzialità e minacce del progetto cinese.
Fin dal suo arrivo al potere, Xi Jinping ha spinto per la realizzazione del “sogno cinese”, per ringiovanire la nazione attraverso la costruzione di una “comunità dal destino comune”. La Belt and Road Initiative (BRI) rappresenta la strada per raggiungere questa comunità nei prossimi 30 anni. La politica estera cinese infatti, passa attraverso lo sviluppo di “un’economia mondiale aperta, la promozione della cooperazione win-win e delle relazioni multilaterali” che le conferiscono, sempre più, un livello di rilevanza geopolitica in grado di incidere sulla comunità internazionale. La strategia economica, quindi, come modello di espansione. Modello che riporta alla mente il sistema di sviluppo della Lega anseatica dell’Europa settentrionale nel tardo Medioevo. La comunione di interessi dei mercanti di Germania, Scandinavia, Paesi baltici e Russia sfrutta la favorevole posizione geografica di un gruppo di città tra Mar Baltico e Mare del Nord e l’assenza di un potere territoriale forte nei territori della bassa Germania, in cui è nata , per dare vita ad un sistema di potere basato sullo sviluppo e l’espansione economica tale da minacciare l’autorità imperiale dell’epoca.
Il progetto di costruire un massiccia rete infrastrutturale vorrebbe, nelle parole di Xi, far rivivere i fasti dell’antica Via della Seta che collegava la Cina al resto dell’Europa. Nella dicitura originale “One Belt One Road Initiative”, ‘One Belt’ si riferisce alla creazione di nuovi collegamenti terrestri, attraverso l’Asia centrale, il sudest asiatico e in avanti verso l’Europa; ‘One Road’, invece, fa riferimento alla rete di collegamenti marittimi che attraversa il Mare Cinese meridionale e l’Oceano Indiano fino all’Africa.
Lo sforzo è estremamente ambizioso: realizzare un sistema di infrastrutture - strade, ferrovie, oleodotti - per raggiungere, nelle intenzioni di Xi, “cinque tipi di connettività”: a livello di coordinamento politico tra i vari paesi aderenti; di collegamento fisico tra luoghi tradizionalmente lontani; di cooperazione commerciale, come logica conseguenza; di integrazione finanziaria ( e uso del renmimbi su larga scala) e una più forte connessione people-to-people. Da qui il valore principale della BRI: presentare la rinascita della Cina ai vicini asiatici e soprattutto al resto del mondo.
La BRI coinvolge circa 70 Paesi e comporta investimenti per 4-8 mila miliardi di dollari: se si considera che l’impegno finanziario rappresenta meno del 1,5 % del PIL annuo dell’area, non è l’aspetto maggiore a preoccupare, quanto piuttosto la fonte dei finanziamenti. La creazione, spesso ad hoc, di istituzioni finanziarie quali l’Asia Infrastructure Investment Bank, la BRICS New Development Bank e il Silk Road Fund celano uno scopo preciso: finanziare il progetto cinese. Il rischio che si paventa è la poca (o pressoché nulla) trasparenza nella concessione dei prestiti, frutto di criteri arbitrari e/o accordi riservati. In più, la necessità di fornire una garanzia statale al debito del paese ricevente, anche nel caso in cui si tratti di società private, espone gli Stati, eventualmente insolventi, al rischio di incrinare i rapporti con la Cina e di cadere nella cosiddetta “trappola del debito”: l’impossibilità di restituire il debito comporta l’obbligo di consegnare al creditore (la Cina) il controllo delle infrastrutture. In altre parole, asservimento politico e strategico. E’ il caso dello Sri Lanka che, soffocato dal debito, ha dovuto cedere a Pechino il controllo del porto di Hambantota per i prossimi 99 anni. La gestione e il controllo del porto dello Sri Lanka, che la geografia ha trasformato in snodo fondamentale delle Vie marittime della Seta, segna una partita importante in termini geopolitici: lo Sri Lanka, storicamente legato all’India e quindi agli Usa, è adesso sempre più inserito nell’orbita cinese con il risultato di consolidare l’ascesa della Cina nel quadrante Indo-Pacifico.
Stessa sorte potrebbe spettare al Pakistan per il corridoio di Gwadar sull’Oceano Indiano: imprese per 62 miliardi di dollari che rischiano di strangolare Islamabad se non riuscirà a rispettare le consegne. L’area del porto di Gwadar, nel Belucistan pakistano, è fondamentale dal punto di vista geostrategico: collocato sul lato occidentale del Medio Oriente e ponte tra gli Stati dell’Asia centrale e orientale e quelli dell’Asia meridionale, si affaccia sul Mare Arabico, dove transitano le principali rotte del petrolio. La Cina si sta garantendo un percorso più breve per i rifornimenti energetici e risolvere cosi il “dilemma di Malacca”: la dipendenza cinese dallo stretto che separa Indonesia e Malesia, fondamentale rotta marittima di petrolio, gas naturale e merci provenienti dal Golfo Persico. Questa striscia d’acqua è, infatti, teatro di un duro scontro tra i colossi asiatici ( e non ) e i Paesi emergenti, per assicurarsi il controllo dello stretto e i relativi transiti.
Ma non è solo la trappola del debito a preoccupare: l’opera che congiunge Gibuti, il piccolo Stato del Corno d’Africa, con Addis Abeba in Etiopia, oltre ai già noti problemi di sostenibilità del debito, sta generando malcontento e insofferenza nelle popolazioni locali che, oltre ad aver perso le loro terre, non vedono i tanti attesi benefici proclamati dai cinesi. Spesso, infatti, le ricadute economiche sui Paesi riceventi sono scarse o a prevalente vantaggio cinese. Questione che ha sollevato non poche polemiche sulla Bri e lanciato accuse di nuovo colonialismo nei confronti della Cina: il piano di investimenti di oltre 60 miliardi di dollari in termini di infrastrutture in cambio di risorse naturali e lo scarso rispetto per i diritti dei lavoratori impegnati nelle grandi opere, hanno portato all’attenzione del mondo la centralità strategica dell’Africa per la Cina e le sue mire espansionistiche celate dietro il velo della BRI. Ad avvalorare la tesi la sempre crescente presenza militare cinese in Africa: la partecipazione ad operazione di peace keeping dell’Onu e l’affiancamento del governo nigeriano nel combattere Boko Haram rappresentano, agli occhi della Cina, cooperazione politica. Alla faccia del principio di non ingerenza, tanto sbandierato in politica estera.
La resistenza cinese, da sempre nota, a considerare l’impatto sociale e soprattutto ambientale dei progetti solleva le “inquietudini” di Europa e Usa che mal si prestano ad accettare il disegno dell’Impero del Centro: l’Europa, dopo averle favorite, ora teme l’invasione cinese dei suoi mercati e le conseguenti politiche sregolate. Gli Usa, molto più chiaramente, vogliono mettere un freno all’ascesa del Dragone. Trump ha, infatti, rinnovato il perno asiatico voluto da Obama con la guerra commerciale sulle importazioni cinesi, allo scopo di sfiancarne l’economia.
Punto di approdo della rotta marittima è l’Italia: direttamente interessati al progetto che vede la Cina come uno dei maggiori partner in termini di import-export marittimo, i porti adriatici (Venezia, Trieste, Taranto e Ravenna) possono costituire uno snodo strategico per i flussi che arrivano dall’Estremo Oriente, attraverso il canale di Suez. I porti del Nord Italia, allo stesso modo, rappresentare la strada di accesso ai mercati dell’Europa centrale. L’Italia può giocare un ruolo strategico (anche a vantaggio del porto greco del Pireo) nel gestire un maggior flusso di merci e persone e l’intero indotto che ne consegue. A patto di intervenire, in tempi brevi, sulle infrastrutture e sulle aree logistiche interne di cui necessitano le nuove reti di collegamento.
A monte però resta decidere se aderire al progetto: dopo il rinvio della firma di adesione italiana alla BRI, a breve il governo dovrà pronunciarsi definitivamente. Sulla scelta pesa il fardello dell’alleanza americana che scongiura la nostra partecipazione al progetto e della stessa Europa che chiude all’avanzata cinese. Ma il tradizionale filo che ci lega alla Russia spinge nell’altro senso: il partenariato russo-cinese, squisitamente strategico e finalizzato a “ristrutturare le catene del valore globali e sviluppare un mondo multipolare”, rende accattivante l’opportunità di creare una rete di connettività economica rilevante per posizionare l’Italia lungo l’asse del crocevia geoeconomico e geopolitico che l’ambizioso progetto cinese sta disegnando.